Lezioni sul sofa – Fatti nuovi

[Post originale scritto per il progetto Lezioni sul Sofa]

Abbiamo bisogno di narrazioni nuove per descrivere fatti nuovi.

Nuove metafore, nuove similitudini.

Innanzitutto smettiamola di dire che siamo in guerra, anche se gli orari scaglionati dei bar ricordavano il coprifuoco degli anni 40, anche se le Olimpiadi sono state fermate e non era mai accaduto se non per il secondo conflitto mondiale.

In ogni caso, smettiamola di usare la metafora bellica, non solo perché sono i malati a chiederlo, da tanto tempo: i malati oncologici e i loro parenti l’avevano già rifiutata in tempi non sospetti perché la possibilità di superare o meno una malattia non dipende dal coraggio (sebbene nel modello biopsicosociale venga riconosciuto il contributo degli aspetti psicologici sul sistema immunitario) e chi non ci riesce non è un perdente.

Smettiamola di dire che siamo in guerra perché questa metafora e la dinamica del conflitto chiamano in causa automaticamente i ruoli di vincitori e vinti, di soprusi e spartizioni. La guerra abbruttisce e imbarbarisce. Ma noi oggi abbiamo bisogno di una solidarietà globale, di una collaborazione globale per affrontare insieme una situazione mia vista prima e che, nella sua portata, ci dà conto dell’anello debole della globalizzazione.

E ancora, smettiamola di dire che siamo in guerra perché gli eroi di cui tutti parlano hanno come obiettivo la salute e la cura delle persone, senza colpire nessun altro. È vero che rischiano in prima persona, ma se vincono vinciamo tutti. È un sistema win-win, come quello che riguarda gli scienziati di tutto il mondo: quando qualcuno troverà la formula giusta, vinceremo tutti.

Prima smetteremo di parlare di guerra e di usare metafore belliche, meglio sarà per i nostri figli, nipoti, alunni che più che mai ci osservano e ci ascoltano alla ricerca di indizi per comprendere il presente. Le parole che usiamo, oltre alle emozioni che mostriamo (più o meno consapevolmente), danno forma e significato ai loro pensieri e alle loro emozioni. Bambini e ragazzi oggi leggono i nostri visi come si leggono i segnali stradali in territori sconosciuti – input fondamentali per non perdersi e trovare la direzione – misurano le nostre reazioni come se fossimo una cartina di tornasole della gravità e del pericolo, di fatto riattivando frequentemente (in maniera insolita) dinamiche che per certi versi sembravano sopite, sospese, perché tipiche della prima infanzia (come il riferimento sociale nel caso della lettura delle emozioni sul viso del genitore nel caso di situazioni che si presentano per la prima volta).

Quindi, poiché le parole danno forma ai significati e poiché la narrazione ci prepara all’azione, stiamo bene attenti alle parole che usiamo.

Ci vuole la giusta dose di fiducia e di prudenza. Ma se parliamo di guerra diventa difficile avere fiducia e d’altra parte se parliamo di normalità è facile che la fiducia sia disattesa.

Ecco, la seconda parola a cui prestare molta attenzione (o forse da evitare) è “normalità”. #Siamoincasa da varie settimane e molti adulti parlano di “mantenere una certa normalità” oppure di “dare una nuova normalità” ma non c’è niente di normale, ad esempio, in un adolescente che sta in casa dalla mattina alla sera vedendo solo i propri genitori, senza incontrare i propri pari, senza uscire e andare a scoprire, esplorare e sperimentare, il mondo che dovrà gestire quando sarà adulto: è qualcosa che teoricamente è contro la natura delle cose, eppure oggi è la realtà e non c’è alternativa.

E allora parlare di “normalità” rischia di essere fuorviante. Se puntiamo alla normalità rischiamo di trovarci perdenti in partenza o, al contrario, rischiamo paradossalmente di arrivare a considerare normale qualcosa che normale non è con l’implicita controindicazione di abituarci, radicarci, invischiarci in qualcosa da cui potremmo far fatica a sganciarci quando la situazione di emergenza sarà superata (e prima o poi succederà).

Eppure, la parola normalità ha un significato ben preciso (dal vocabolario Treccani):

Carattere, condizione di ciò che è o si ritiene normale, cioè regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico, con riferimento sia al modo di vivere, di agire, o allo stato di salute fisica o psichica, di un individuo, sia a manifestazioni e avvenimenti del mondo fisico, sia a situazioni (politiche, sociali, ecc.) più generali.

E tutto ciò non ha nulla a che vedere con quello che stiamo vivendo, dunque: prima smetteremo di parlare di normalità, meglio sarà per i nostri figli, nipoti, alunni che hanno bisogno di dare significato a ciò che stanno vivendo e hanno bisogno che noi li aiutiamo a farlo.

Quello che possiamo, dobbiamo, ricercare non è una nuova normalità ma un nuovo equilibrio. Anzi, nuovi equilibri: nella gestione del tempo (quanto tempo passare con il tablet in mano ora che serve anche per la didattica a distanza? E quanto tempo davanti ai videogiochi ora che rappresentano anche una delle poche possibilità di interazione con i compagni?), nella cura della salute (come conciliare il bisogno di movimento con la situazione domestica? E come gestire la tentazione di compensare con il cibo tutte le altre privazioni?) nella cura delle relazioni e questo rappresenta probabilmente l’equilibrio più prezioso da ricercare perché i bambini crescono, imparano e si strutturano anche grazie alle relazioni e il fatto che venga a mancare il confronto con i compagni e i coetanei non è solo una questione di noia o divertimento, non è solo una questione di scuola in presenza o a distanza. E’ una questione molto molto più ampia e strutturale, collegata alla possibilità di alimentare o disinnescare le dinamiche classiche dello sviluppo che, ad esempio, prevedono un movimento continuo tra base sicura ed esplorazione, andata e ritorno. Un’esplorazione che ampia il proprio raggio d’azione giorno dopo giorno, in termini di tempo e di distanze. Un’esplorazione che a una certa età diventa anche e soprattutto relazionale.

E l’equilibrio di per sé è qualcosa di dinamico, come quando andiamo in bicicletta: c’è bisogno di guardare avanti e pedalare, un piede alla volta, per restare in equilibrio e riuscire a procedere. C’è bisogno di spingere di più o di meno, a seconda della pendenza, a volte addirittura di frenare, per restare in equilibrio e andare oltre. E’ qualcosa che facciamo soli o in compagnia ma spesso abbiamo avuto bisogno di qualcuno che all’inizio ci sostenesse, ci facesse coraggio per non desistere e sostenesse la bicicletta per non farci cadere. Ma dopo un po’ di pratica, abbiamo imparato e ora chi ci ferma più…