Due geniette per “una pedagogia dell’errore”…

Ricordo che, quando mi capitò di leggerla in un manuale (dedicato ai Disturbi dell’Apprendimento) mi colpì: “serve una pedagogia dell’errore”. E questa frase mi è tornata in mente guardando una serie animata in onda su Nick Junior: “Shimmer e Shine”

E proprio sul sito dell’emittente si legge “una coppia di geniette gemelle, ancora apprendiste, che involontariamente provocano piccoli pasticci nel tentativo di esaudire i desideri del loro migliore amico, Leah. In ogni episodio Leah si trova di fronte a un dilemma che richiede un aiuto delle sue amiche magiche. L’ingenuità delle due geniette sul nostro mondo le induce a desiderare sempre le cose sbagliate, inviando le ragazze in avventure fantastiche per cercare di rimediare insieme agli errori fatti!

Ecco, premesso che l’amico in realtà è un’amica (forse chi ha tradotto dall’inglese non aveva visto il cartone?!) ed effettivamente la serie, tra scintillii vari e lustrini rosa fucsia, strizza l’occhio a un pubblico al femminile, e questo sarebbe ben poco innovativo se non fosse che dall’altra parte tenta di invertire uno stereotipo di genere (per cui il genio della lampada era sempre un genio maschio). Troviamo un personaggio maschile tra gli amici di Leah.

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Ma al di là delle questioni di genere, così attuali (e di cui in generale è ancora necessario parlare), mi piace focalizzare l’attenzione sul tema dell’errore.

Sempre sul sito dell’emittente leggiamo che “La serie insegna ad affrontare i problemi e a trovare soluzioni in una logica di problem solving“.

Ma la parte più interessante è che questo tipo di problem-solving, all’interno delle puntate, procede per prove ed errori o “trials and errors” (secondo la nomenclatura introdotta da Edward Thorndike nel 1898, tra i precursori del Comportamentismo e tra i fondatori della Psicologia scientifica, e qui ci piace citare il Comportamentismo perchè in esso ha le radici lo studio dell’apprendimento, a partire dagli approfondimenti di Watson).

Inoltre, al termine delle varie puntate (in un’analisi a posteriori, una sorta di verifica della giornata) gli errori vengono interpretati come opportunità per esperienze nuove e positive.

Ora, lungi da qui, l’idea di ricercare ed elogiare gli errori in quanto tali in assoluto, ma trovo che la tematica affrontata dagli autori sia particolarmente interessante perchè la procedura per prove ed errori è qualcosa che caratterizza l’evoluzione, sia a livello filogenetico che ontogenetico. E’ il modo in cui Cristoforo Colombo ha scoperto l’america ed è il modo in cui ogni bambino impara a camminare, a parlare correttamente, e poi a scrivere correttamente… un passo alla volta.

D’altra parte, le geniette rappresentano delle “neofite”: sia rispetto al mondo della magia (per cui sono delle apprendiste), sia rispetto al “mondo umano” (in cui sembrano approdare per un viaggio di lavoro) di cui devono ancora imparare a conoscere tanti dettagli, spesso legati proprio ai doppi-sensi che possono caratterizzare il linguaggio.

E dunque, come educatori, insegnanti, genitori, nonni…ricordiamoci, e ricordiamo ai bambini che ci sono vicini, che sbagliando si impara (come cantano le geniette: “perchè sbagliare è un po’ imparare ed io ho voglia di imparare sai…”).
E attiviamoci per coltivare una pedagogia dell’errore in termini metacognitivi. Infatti l’apprendimento che avviene secondo il modello comportamentista talvolta viene definito “cieco” in contrapposizione all’apprendimento “intelligente” che coinvolge abilità superiori, tipicamente umane. E sicuramente la capacità di riflettere sui propri errori e di imparare dai propri errori rientra in questo campo.

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Un approccio metacognitivo per una pedagogia dell’errore (nei DSA)

Crediamo che gli insegnati che si pongono l’obiettivo di sostenere i processi di apprendimento di bambini con dislessia evolutiva o DSA debbano contemplare nel loro stile di insegnamento quello che potremmo definire come «filosofia operativa metacognitiva» (De Beni, 1991; Friso et al., 2006).

> Avere una filosofia di lavoro metacognitiva, significa avere presente, una modalità di approccio alla valutazione del compito orientata a porre domande, piuttosto che alla proposizione di affermazioni: «Come hai fatto? Come potresti fare?».
In questo senso gli errori possono divenire una straordinaria fonte di riflessione strategica, una formidabile, e talvolta unica, occasione di automonitoraggio sul processo volontariamente, ma inconsapevolmente, attivato.

Far scoprire all’alunno che l’errore non è un «peccato mortale», un evento da rifuggire in ogni modo, una catastrofe irrimediabile che rimanda alla nostra (dell’alunno in difficoltà, che già, più che abbastanza, colleziona fallimenti) inadeguatezza, ma l’esito finale di un processo, di una modalità operativa che l’ha prodotto, consente di perseguire due obiettivi.

Il primo obiettivo è quello dell’evitamento della negazione. Quando l’errore viene prodotto, l’alunno per proteggere la sua autoimmagine, cerca di trovare giustificazioni che ne attenuino l’impatto emotivo. Questo atteggiamento difensivo in parte può essere giudicato «sano», ma comunque improduttivo. Inoltre, l’atteggiamento dell’insegnante che, anche lui nel tentativo di proteggere l’autostima dell’alunno, ne sminuisce il peso svalutandone l’importanza. Al contrario, questo atteggiamento «pietistico» non fa altro che convincere l’alunno della sua totale inadeguatezza.

Il secondo obiettivo è di valorizzarlo come segnalatore strategico, come rilevatore del processo cognitivo attivato, come evento che può dare un orientamento diverso al percorso operato per raggiungere il risultato. In linea con il metodo scientifico, il quale basa la sua operatività sulla procedura fatta di «tentativi ed errori», l’errore deve diventato un punto di partenza nella ricerca della strategia adeguata (Czerwinsky Domenis, 2005). Aiutare l’alunno a utilizzarlo per riflettere sulle modalità procedurali impiegate, stimolando la ricerca di ciò che l’ha prodotto, permette di effettuare quei cambiamenti che possono portare alla risposta voluta, siano questi di natura comportamentale o strategica.

> Insegnare a un alunno, specie se con dislessia evolutiva e DSA, a prendere consapevolezza dei processi cognitivi utilizzati, a monitorare le procedure adoperate, a tenere sotto controllo le modalità operative, diviene in questo modo più naturale e più facilmente integrabile all’interno della didattica quotidiana (Ferraboschi e Meini, 1995).

L’errore invita a fermarsi a considerare quale procedimento inadeguato lo abbia prodotto. Se, quindi, l’insegnante, davanti a un errore, sollecita l’alunno a esercitare queste considerazioni, induce una presa di coscienza naturale dei processi cognitivi individuali utilizzati.
A partire dalla domanda «Come sei arrivato a questo?», si può intavolare con l’alunno un dialogo nel quale l’insegnante pone i quesiti che lo condurranno sia alla consapevolezza metacognitiva sia all’individuazione causale dell’errore. In questo modo l’alunno si renderà conto che l’errore non è un evento determinato dal caso, dalla cattiva sorte o da una presunta incapacità, ma è la naturale conseguenza di un procedimento intenzionalmente, anche se talvolta inconsapevolmente, messo in atto. Anche la didattica metacognitiva, quindi, consente all’alunno di sperimentarsi come attore principale del processo di apprendimento, innescando un circolo virtuoso di accertamento delle proprie capacità, e, in definitiva, di autoefficacia.

La lezione di Feurstein (Feuerstein et al., 1995; Feurstein, 1995) ci ricorda che qualsiasi processo di apprendimento, potente fino al punto di attivare nuovi circuiti neuronali (Vanini, 2003), avviene attraverso una mediazione relazionale. Nessuna tecnica, per quanto efficace possa essersi dimostrata, produrrà risultati significativi se non avviene entro una relazione capace di attivare risorse, di motivare, di far sperimentare sentimenti di fronteggiamento delle difficoltà (Perticone, 2004). Ma proteggere l’autostima non è sufficiente: occorre che sia supportata da un’azione concreta e precisa. Una positiva immagine di sé può essere consolidata promuovendo lo sviluppo del senso di autoefficacia percepita e di uno stile di attribuzione degli eventi valido (Farci e Orrù, 2007).

Il tema dello stile attributivo, e ancor più quello di una pedagogia dell’errore, chiama in causa specifici programmi di impostazione metacognitiva: si parte dall’idea che gli studenti devono essere stimolati a riflettere sulle proprie motivazioni e strategie e portati a modificare il proprio approccio allo studio e l’atteggiamento motivazionale a partire da quanto già fanno, sanno e pensano.

BIBLIOGRAFIA
De Beni R., (1991). La metacognizione: dagli aspetti strategici a quelli emotivo-motivazionali. Età evolutiva, vol. 40, pp. 99-106.
Czerwinsky Domenis L. (2005). Un errore utile. Trento: Erickson.
Farci, G., Orrù, R. (2007). I compiti della scuola nel trattamento della dislessia evolutiva. Dislessia, Vol. 4, n. 1, pp. 47-62.
Ferraboschi L., Meini N. (1995). Recupero in ortografia. Trento: Erickson. Feurstein R. (1995). Non accettarmi come sono. Ariccia (Roma): Sansoni.
Feuerstein R., Rand Y., Haywood H.C., Kyriam L., Hoffman M.B. (1995). Mediated learning experience. London: Freund.
Friso G., Palladino P., Cornoldi C. (2006). Avviamento alla metacognizione. Trento: Erickson.
Vanini P. (2003). Potenziare la mente? Una scommessa possibile. Gussago (Bs): Vannini Editrice.

Comportamento e comportamentismo

Il comportamento è inteso come insieme delle risposte a un dato stimolo. Lo stimolo è un dato fisico; la risposta è un dato fisiologico. Per loro natura, entrambi sono suscettibili di un\’accurata rilevazione da parte di osservatori indipendenti in condizioni controllate.
Secondo l\’approccio comportamentista (o Comportamentismo), la psicologia assume il compito di occuparsi di come l\’individuo agisca, adottando un orientamento descrittivo piuttosto che interpretativo. L\’organismo è considerato alla stregua di una \”scatola nera\” (black-box), al cui interno lo psicologo non può entrare. Per definizione, secondo i comportamentisti, la mente non è oggetto di analisi della psicologia. In ingresso (input) a questa scatola nera arrivano gli stimoli ambientali S; in modo conseguente l\’organismo emette risposte R in uscita (output). Lo psicologo comportamentista esamina le associazioni S-R, in particolare come il variare delle risposte (variabile dipendente) dipende dal variare degli stimoli (variabile indipendente). Data questa impostazione, Watson attribuì particolare importanza ai processi di apprendimento, atti a istituire nuove associazioni S-R in funzione dell\’adattamento all\’ambiente. In tal modo il comportamentismo si immetteva nell\’alveo degli studi iniziati da Edward Thorndike (1911) con l\’apprendimento per prove ed errori (trials and errors) e, poi da Ivan Pavlov con il condizionamento classico (1927). Questa linea di ricerca fu approfondita da Burrhus Skinner (1939) con il condizionamento operante.

[Anolli, L. & Legrenzi, P. (2001). Psicologia Generale. Ed. Il Mulino, Bologna]

Thorndike e il connessionismo

L\’estensione del condizionamento classico (pavloviano) fu realizzata da Skinner, che riprese le ricerche pionieristiche di Thorndike (1911), il cui nome è legato all\’apprendimento per prove ed errori. Per Thorndike \”apprendere è connettere\”: creare una rete di connessioni tra situazioni e stimoli da una parte e risposte dall\’altra. Thorndike mise un gatto in una gabbia (detta problem-box), costruita in odo da creargli difficoltà per uscire. Il gatto compiva dei movimenti alla cieca e quindi forniva casualmente risposte sia giuste sia errate. La risposta giusta consisteva nel premere una leva o tirare una corda che permetteva l\’uscita dalla gabbia. Thorndike accertò che le risposte corrette tendono a essere ripetute e quelle erronee a essere abbandonate. Egli definì come legge dell’effetto tale connessione poiché i legami associativi fra stimolo e risposta non dipendono solo dalla loro contiguità temporale (esperimento di Pavlov), ma anche dagli effetti che seguono la risposta. Diminuisce così il tempo di soluzione del problema (tempo impiegato per uscire dalla gabbia). Thorndike scoprì anche la legge dell’esercizio, secondo cui la ripetizione di una risposta diventa tanto più probabile quanto più spesso è ripetuta.

[Anolli, L. & Legrenzi, P. (2001). Psicologia Generale. Ed. Il Mulino, Bologna]

Skinner e il Condizionamento Operante

Skinner riprese l’impostazione di Thorndike e la tradizione pavloviana, introducendo la distinzione tra a) comportamenti rispondenti, derivati da riflessi innati (la salivazione) o appresi tramite il condizionamento pavloviano (associazione SC+SI, stimolo condizionato-stimolo incondizionato); b) comportamenti operanti, non derivati da riflessi innati ma emessi spontaneamente dall’animale (associazione S-R, stimolo-risposta, come quando il gatto impara a premere la leva per uscire nella problem-box di Thorndike). Skinner distinse così il condizionamento operante (strumentale: il soggetto agisce, opera, nell’ambiente e lo modifica emettendo dei comportamenti in risposta a stimoli) da quello classico (introdotto da Pavlov), da lui chiamato rispondente, dato che il soggetto non controlla la risposta provocata dallo stimolo. Skinner è interessato unicamente alla catena associativa S-R e assume che la mente sia come una scatola nera (black-box) non osservabile sul piano sperimentale e quindi da ignorare.

Poniamo un ratto in una gabbia in cui è presenta una leva fra molte altre cose. Il ratto compie molte azioni e casualmente preme la leva. Non appena preme la leva ottiene del cibo come ricompensa. Nel giro di pochi minuti apprende l’associazione fra il premere la leva e l’erogazione di cibo. Come conseguenza il ratto tende a ripetere più volte il suo comportamento per ottenere la ricompensa. Tale effetto costituisce un rinforzo: una ricompensa in grado di aumentare la probabilità di produrre il comportamento in oggetto. I rinforzi possono essere positivi (una gratificazione come il cibo o l’acqua) o negativi (l’eliminazione di una situazione spiacevole, come la cessazione di un rumore fastidioso).

I rinforzi (positivi o negativi) hanno lo scopo di aumentare la probabilità della frequenza del comportamento in oggetto. A questo riguardo Skinner distingue nettamente fra rinforzo e punizione: quest’ultima consiste nella realizzazione di una situazione spiacevole con lo scopo di diminuire (ma non di annullare) la probabilità della frequenza di un certo comportamento. Al pari del rinforzo anche la punizione va distinta in positiva (quando consiste in uno stimolo doloroso per il soggetto) e negativa (quando consiste nella sottrazione di qualcosa di gratificante).

I rinforzi possono essere ulteriormente distinti in primari o secondari. Nel primo caso abbiamo eventi che soddisfano i bisogni fondamentali dell’individuo (fame, sete, ecc); nel secondo caso siamo in presenza di stimoli (denaro, approvazione, ecc) che sono ugualmente in grado di rafforzare il comportamento in oggetto

[Anolli, L. & Legrenzi, P. (2001). Psicologia Generale. Ed. Il Mulino, Bologna]